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  • NATURAL BORN READER – KITCHEN CONFIDENTIAL

    NATURAL BORN READER – KITCHEN CONFIDENTIAL

    NBR – Natural Born Reader a cura di Roberta Maroni per MAGAZZINO26

    Se cercate il classico manuale di cucina questo libro non fa per voi. E anche voi, anime candide, lasciate stare. Oggi parliamo di: Kitchen Confidential di Anthony Bourdain

    Natural Born Reader – Kitchen Confidential

    Anthony Bourdain, apprezzato chef americano e famoso personaggio televisivo, è stato anche autore di libri di successo, sia romanzi gialli che autobiografici. La sua recente scomparsa ha lasciato sbigottiti tutti i suoi ammiratori, me compresa.

    Ho apprezzato veramente il suo modo di fare televisione e trovo che i suoi programmi siano un limpido esempio di come qualsiasi argomento possa essere trattato in modo originale e stimolante, alzando il livello della comunicazione.

    Invece non conoscevo il suo lavoro di scrittore, per cui sto cercando di recuperare, iniziando da queste sue “Avventure gastronomiche a New York”, pubblicato originariamente nel 2000.

    La voce dell’autore ci racconta, con estrema sincerità, la sua vita in rapporto all’argomento che ne è il fulcro: il cibo. La sua dichiarazioni d’intenti e (motivo del clamore suscitato all’epoca della pubblicazione) è quella di svelare gli aspetti meno noti (ed edificanti) del mondo della ristorazione, i segreti, insomma, che nessuno che lavori in quel mondo vorrebbe che i suoi clienti sapessero.

    Ma come è arrivato Anthony Bourdain ad essere detentore di questi segreti?

    Come in un film la scintilla scoccò durante un lungo viaggio in transatlantico, quando il palato dell’allora ragazzino, abituato a sapori da cibo in scatola, scoprì il gusto sotto forma di “Vichyssoise”.

    Quel viaggio in Francia rappresenta per l’autore un vero momento di svolta, grazie alla possibilità di scoprire nuovi sapori, sperimentare e osare con cibi che anche i suoi familiari si rifiutano di assaggiare: un momento di consapevole potere che darà i suoi frutti. Il periodo storico e una certa tendenza innata nell’autore per gli eccessi lo faranno approdare, più adulto, nella cucina di una località turistica, ultimo sguattero di una ciurma di carismatici briganti: un mondo dove mettersi alla prova, tra cucina, sesso e droga .

    Da qua, con un alternarsi di alti e bassi, si dipanano le avventure personali e professionali dello chef; squarci intimi, a volte impietosi, sull’umanità dell’autore, sulla sua storia ma anche sulla sua “filosofia”.

    Alternati ai racconti troviamo infatti frequenti riflessioni che dal mondo della cucina riflettono la vita (e viceversa) ma anche utili consigli per gli aspiranti cuochi o per i semplici clienti; dopo alcuni di questi non guarderete più un ristorante nello stesso modo. Poco sconvolgenti invece, almeno per me, i famosi segreti; naturalmente per il pubblico americano dell’anno duemila, affascinato dalla figura degli chef, nuovi sacerdoti negli esclusivissimi templi della haute cuisine, l’effetto è stato ben altro.

    Da tutto ciò emerge il ritratto di un uomo dallo spirito guascone, sinceramente curioso di ogni aspetto della vita, indipendente, irriverente e anticonformista (anche se profondamente legato alla tradizione culinaria e ai suoi fedeli collaboratori), la cui vita è, al momento della stesura del libro, totalmente incentrata sul lavoro.

    E’ evidente in quest’opera la consuetudine dell’autore di esprimere giudizi “tranchant” ma, sorprendentemente, anche la capacità di smentirsi e rimettersi continuamente in discussione. Forse per qualcuno l’utilizzo di un lessico preso direttamente dalla strada, anzi meglio, dalle cucine, potrebbe essere di dubbio gusto. Io ritengo invece che sia d’aiuto al lettore per capire bene l’atmosfera delle cucine in cui Bourdain si è formato ed è vissuto.

    Ho divorato “Kitchen Confidential” e penso mi sia servito per elaborare l’incredibile epilogo della vita di questa rockstar del food entertainment. La narrazione è molto avvincente, onesta e rivelatrice di un animo profondo e combattuto, e la consiglio non solo ai fan dello chef, ovviamente, e a chi ha avuto esperienze nel mondo della ristorazione, ma anche a tutti gli appassionati di letture dissacranti e agli amanti delle voci fuori dal coro.

    Però, lo ammetto, sono di parte.

  • PERSONAL SHOPPER DI OLIVER ASSAYAS — ABITO, ERGO COGITO

    PERSONAL SHOPPER DI OLIVER ASSAYAS — ABITO, ERGO COGITO

    IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner from NYC

    A New York non c’è che l’imbarazzo della scelta. In tutto, figuratevi in ambito sale cinematografiche. Una che va per la maggiore, fra i newyorkesi che amano il cinema con determinate caratteristiche — made-in-Europe, indipendenza, qualità, controcorrenza — è senz’altro l’IFC Center. La sala sorge nel cuore del Greenwich Village, a un isolato dal Washington Square Park, e a pochi metri dal famoso Blue Note Jazz Club — basta attraversare la 6th Avenue e imboccare la 3rd Street West e ci siete. Io immagino sempre che alcuni spettatori, a fine film, guardino le loro donne negli occhi con sguardo Dick Tracy e propongano di proseguire la serata tra jazz e swing, di là della strada. ‘Cause night is still young, you know, baby… 

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    All’IFC Center sono stata a vedere Personal Shopper di Oliver Assayas, che di fatto presenta l’identikit del film da IFC Center. Europeo, indipendente, di qualità e controcorrente. Il titolo potrebbe trarre in inganno, tuttavia. Non ha nulla a che vedere con l’I Love Shopping di una Kinsella, o filmetti in cui una qualche Paris Hilton potrebbe recitare, facendo spola fra Rodeo Drive e Via Monte Napoleone. Personal Shopper racconta la vita un po’ sui generis di Maureen, ventottenne americana che vive a Parigi e di mestiere fa l’assistente personale/tuttofare di Kyra, top super model che sembra essere tutto il contrario di quello che Maureen crede di essere. Kyra superficiale, vanitosa, artefatta, sofisticata, quanto lei seria, con velleità artistiche, sobria ai limiti dell’ascetismo — jeans, maglietta unisex, maglioncini da flea-market. Maureen è pure una medium, e questo certo le complica non poco la vita. Ha la capacità di comunicare con i morti, e nella vita, oltre a rimbalzare da una boutique all’altra tra Milano e Londra e rifare il guardaroba di Kyra, aspetta. Che cosa? Un segnale da parte del fratello gemello morto a causa di una malformazione cardiaca da cui è affetta pure lei. E le arrivano, dei segnali… Ma da presenze — vive? Vere? Morte? — che la perseguitano via cellulare.

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    Il film si trasforma, a questo punto in un thriller dall’esito abbastanza prevedibile.

    Fossi stata Assayas, avrei lasciato perdere tutta la deriva paranormale e mi sarei concentrata sulla vita di questa ragazza che cerca di trovare la propria identità. Il confronto con l’altro — altrissimo — da sé, rappresentato da Kyra, la porta a interrogarsi sulla propria femminilità. Disprezza davvero la “vacuità” della top model, oppure, in qualche modo, vorrebbe essere (come) lei?

    La questione non è poi così lontana dai dilemmi che noi stessi ci poniamo guardando chi conduce vite diametralmente opposte alle nostre. E il film sfiora anche un punto cruciale della vita della protagonista — così come della nostra. Il desiderio. Cosa ci spinge sempre verso ciò che non abbiamo? Il desiderio, insieme a Dio, è il più grande burattinaio a cui l’uomo-burattino è chiamato a sottostare.  
    “Non c’è desiderio senza il proibito”, ragiona a un certo punto, Maureen. Questo vale per lei, che muore dalla voglia d’infilare gli abiti mozzafiato della sua datrice di lavoro, e vale per noi, che molto spesso siamo attratti da ciò che diciamo di detestare. Il meccanismo psicologico per cui neghiamo ciò che vogliamo affonda le radici in una consuetudine autoprotettiva. Esplicitando un desiderio ci esponiamo anche alla possibilità di non conquistare l’oggetto desiderato. Molto meglio risparmiarsi un fallimento attraverso la negazione preventiva che rischiare di mancare l’obbiettivo.

    Il lavoro del personal shopper, che potrebbe erroneamente suscitare associazioni al mondo del futile, del superficiale, è molto legato alla sfera del desiderio e del desiderio negato. Io scelgo i vestiti altrui: devo farlo utilizzando il mio gusto, ma desiderando ciò che fa piacere al (il) cliente, non (a) me. Devo fare in modo di esserci, pur rimanendo invisibile.

    E poi c’è anche la componente di dissimulazione identitaria che emerge. Se io sono personal shopper di qualcuno e quel qualcuno diventa famoso grazie ai look strepitosi che io gli propongo, chi merita la fama, io o il cliente? La scena in cui Maureen vede le foto in cui Kyra è ritratta con gli outfit scelti da lei, e si stizzisce, è ben rappresentativa di questo conflitto. Conflitto interiore che troverà la sua massima espressione nel momento in cui la ragazza indosserà vestiti e biancheria intima di Kyra e dormirà nel suo letto, quasi volesse, per un giorno e una notte, scivolare fuori da se stessa e infilarsi nel suo opposto.

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    Gli abiti che fanno tanta gola a Maureen sono stati scelti ad arte dal Costume Designer Juergen Doering e dipingono due volti opposti della femminilità. Da un lato, un knee dress by Chanel con profondo slit sul petto, tutto fatto d’inserti glitter-mirror che richiama una donna raffinata, femminile, un angelo moderno — l’effetto è fra l’avveniristico e gli anni ’30, come un vero abito dovrebbe essere: passato e futuro materializzati in un momento presente. Dall’altra un look da virago firmato Vionnet: bustino a fasce nere con geometrie fetish velato da un abito-sottoveste di organza nera che lascia ben poco all’immaginazione e scatena la fantasia erotica, non solo dello spettatore, ma anche della stessa Maureen. La ragazza, provando questi abiti visibilmente seducenti, prova ad abitare il mondo del desiderio che si nega nella vita di tutti i giorni attraverso un look asessuato non-connotato che cancella la sua femminilità. Personal Shopper, in questo senso, è un esempio di come un vestito sia ben più di un vestito, ma inneschi delle riflessioni sulla propria identità e sul proprio intimo personale che incidono sul percorso compiuto dal personaggio durante il film.

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    Personal Shopper poggia praticamente tutto sulle spalle di Kristen Stewart, che passa buona parte del tempo a digitare messaggi via Whatsapp, evocare il fratello trapassato e a difendersi da ectoplasmi impazziti. Eppure la sua interpretazione è sempre credibile, dall’inizio alla fine, a riprova che la bravura può mettere una pezza laddove la sceneggiatura vacilla. La Stewart rappresenta il presente e il futuro della recitazione made-in-USA al femminile, insieme alle colleghe Emma Stone, Jennifer Lawrence e le sorelle Dakota ed Elle Fanning (Elle soprattutto): la generazione successiva alle Natalie Portman, Scarlett Johansson e Kirsten Dunst, star senior che non rimpiangeremo, visto l’indubbio talento di queste junior.