LFW: LA SFIDA VINTA ALLE PRESE CON UNDERGROUND E INNOVAZIONE
Se lo stile British è da sempre simbolo di eleganza e bon ton, la London fashion week è una vera e propria industria di talenti emergenti nel campo dell’underground e dello Streetwear. Seppur di nicchia sono moltissimi i buyer che puntano gli occhi a questa settimana come un vero e proprio investimento su giovani talenti visionari, che nel tempo hanno prodotto grandi risultati. A quanto pare è qui che nasce il FASHION 2.0. Lo street style colora la città durante questa settimana che molti definiscono “the innovative week”.
Basti pensare a quartieri come Camden Town, i sobborghi scuri delle zone 5 e 6 o anche a Portobello Road, per capire che Londra sarebbe diventata nel tempo un punto di riferimento per giovani talenti del fashion design, che hanno saputo prendere il meglio da una città che offre mille punti di vista. Quella di Londra è una vera e propria Academy Fashion Week, infatti la maggiorparte dei designer presenti sono freschi di laurea, e sono proprio loro da tenere sott’occhio.
Micol Ragni, ad esempio, è tra i più amati dello star system osannato da Rihanna e Rita Ora, il suo modo di fare moda è concettuale e a tratti teatrale.
La London Fashion Week offre anche moltissimi spunti per critica, come la Brexit, presa come punto di riferimento per la collezione di Katie Ann McGuigan che punta allo sport come collante fra un popolo diviso. Infatti, ispirandosi ai successi della nazionale inglese ai mondiali di calcio crea una linea di Jersey ispirata al football.
È una settimana che punta all’ecologia, è Green. Infatti, il British fashion Council ha deciso di inaugurare la prima settimana della moda NO FUR.
È la settimana di Riccardo Tisci, che rivoluziona Burberry a partire dal logo e crea uno show pronto a rivoluzionare per sempre il brand, introducendo la novità del “buy after show”, strizzando così l’occhio al mondo social. La collezione dal nome “Kingdom” sta ad indicare la grandezza del brand e la voglia di rinnovare e rivoluzionare questo regno rendendolo vicino al mondo dei millenials.
Ma il ritorno a casa in grande stile è stato quello di Lady Posh Spice, Victoria Beckham, che per la prima volta scende in passerella a Londra per festeggiare i 10 anni del suo marchio. La collezione risente del lifestyle neworkese minimal e cosmopolita. Ma per festeggiare ha creato una Limited edition tirando fuori il suo animo British creativo e innovativo.
Se stranamente doveva essere la settimana del new concept of fashion, è diventata la festa per un nuovo arrivo ed un anniversario. Londra ci sorprenderà.
Diana Gartner e Jesús Del Pozo al termine della presentazione della collezione Autunno/Inverno 2001/02
Gli aquiloni di Jesús Del Pozo
Alla scoperta di uno dei talenti madrileni più riconosciuti al mondo, vincitore di numerosi premi nel campo delle arti e del design. Come per Cristóbal Balenciaga e Mariano Fortuny y Madrazo, da sempre riconosciuti come suoi maestri universali, Del Pozo è profondamente legato alle radici spagnole e alle antiche tradizioni: i suoi abiti possono essere descritti come “avant-garde e sofisficati”, ingannano per la loro apparente semplicità e sono dotati di una grande raffinatezza, che avvicina l’artista alla corrente artistica strutturalista, dove ogni elemento non è considerato nella sua singolarità, ma come parte di un sistema basato su un insieme di relazione tra gli elementi stessi. Jesús Del Pozo, madrileno di nascita, classe 1946, fin dalla tenera età ha sempre dimostrato interesse per rimodellare e plasmare tutto ciò che incontra.
“Desde que nací recuerdo haber hecho cosas con las manos, haber dibujado y pintado: recuerdo haberme educado en el arte, intentando entender lo que no entendía […] esto me ha dado un poso que se refleja en mis piezas textiles”.
Durante i suoi studi di Interior Design, sperimenta e comprende tutte le possibilità di colore, forma, volumi e consistenza che un tessuto può sviluppare dando forma a una vera e propria poetica dell’indumento. Il sogno è il tema ricorrente di tutte le sue creazioni presentate nel corso degli anni tra Madrid, Tokyo e Parigi, declinato attraverso strutture essenziali e pure, ma dalle deliziose lavorazioni sartoriali. La sua moda “avant-garde” e sempre coerente ha come leit-motiv la ricerca della qualità e di una sofisficata naturalezza, che può essere apprezzata a stretto contatto con i materiali da cui è composta. Il suo stile è ingannevolmente semplice, sottilmente seducente, serio e raffinato: non è soltanto una scelta estetica, ma una vera e propria filosofia personale. Tutto è plasmato attraverso il colore, la struttura e un approccio sofisticato, mai superficiale: le forme sono sobrie, i volumi sono rigorosi. Il suo lavoro è pura creazione e avvicina la moda a una forma d’arte contemporanea, che difficilmente si può conciliare con i convenzionali trends del mondo della moda.
A/I 2010/2011; A/I 2006/07; A/I 2005/06
Violeta Sanchez rintratta per Del Pozo da Javier Vallhonrat (1988)
La geometria delle linee, l’attenzione ai dettagli e la meticolosità nella rifinitura si ricollegano alla lunga tradizione spagnola nella moda e nell’arte e stabiliscono una forte connessione con le opere di due grandi artisti che storicamente lo hanno preceduto: Cristóbal Balenciaga e Mariano Fortuny y Madrazo. La sua visione estetica unitaria ha contagiato diversi aspetti del design: dai gioielli ai profumi, agli occhiali, all’ arredamento per la casa, ai tessuti, ai tappeti, alle uniformi, agli abiti per bambini o da sposa, ai costumi teatrali e alle scenografie, ecc…; come affermato in numerose interviste, il suo processo creativo è spontaneo e naturale e nasce dal desiderio di generare il nuovo sostituendo il già esistente.
Il suo primo negozio, nei toni del beige e del rosso sulla Calle Almirante, aperto nel 1974, diventa espressione del suo spirito pionieristico e intraprendente e ben presto il rifugio per le persone “cool” di Madrid. La moda diventa veicolo di cambiamento sociale, culturale e politico: lasciando alle spalle la cupa Spagna della dittatura franchista, la “nuova Spagna” comincia a esplodere e a manifestare la nuova identità a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. I “nuovi creatori” sono sulla bocca di tutti, si anima la “movida” e la vita notturna, emergono le collezioni galiziane, le idee che provengono da Barcellona hanno un forte impatto rivoluzionario; lo stesso fenomeno si sviluppa nella moda, con le giovani donne vestite da Francis Montesinos a Valencia, Toni Mirò a Barcellona e Jesús Del Pozo a Madrid. La moda spagnola acquista consapevolezza, forgia e materializza il suo nome, anche se è ancora vista con una certa perplessità e le difficoltà contingenti sono molte.
Il lavoro di designers come Del Pozo nasce nello sviluppare quello che sarebbe diventata la moda spagnola attuale, ossia sinonimo di un design di qualità e durevole, dall’estetica fantasiosa.
Abito della collezione 1987
I capisaldi del suo lavoro sono principalmente tre:
1- il volume, che significa rimodellamento e controllo dello spazio.
I suoi vestiti non sono però costumi, sono piuttosto aerei “aquiloni” o “sculture abitabili”, in ogni caso opere d’arte autentiche. Il riferimento alle forme della natura è forte, così come ai suoi maestri: ad esempio, le “mujeres cuencos” (le donne bocce) della fine degli anni 80 sono un chiaro riferimento alle creazioni a palloncino di Balenciaga. In ogni caso, la gestione mai improvvisata ma comunque naturale del volume ha permesso di essere avanti con i tempi a lui contemporanei e di riesaminare la percezione della forma scultorea e delle trame contrastanti. Jesús procede instancabilmente a smantellare alcuni vecchi pezzi per produrne di nuovi: in questo modo son stati prodotti alcuni dei pezzi più spettacolari degli anni 90, che hanno generato nuovi e complicati standard per le collezioni successive. La geometria tridimensionale viene realizzata con i tessuti più disparati: dai tessuti più rigidi alla più eterea e sottile seta o voile di cotone, quest’ultimo scelto per realizzare gonne a spirale con una trama simile alla carta.
2- la ricerca e l’attenzione alla materia che carezza la pelle: tessuti con ordito di metallo, rasi, iuta, sete, popeline, lini, sete grezze.
P/E 2010Nieves Alvarez sfila per la collezione A/I 2000/01
Una forte predilezione per i tessuti naturali, che negli ultimi anni ha lasciato il posto anche alla riscoperta delle componenti sintetiche.
La superficie materica non è mai liscia, ma sempre manipolata, caratterizzata da solchi o incidenti intenzionali, come dimostrano le scomposizioni dei capi degli anni Novanta. Qua emerge l’affinità con Fortuny, che interveniva direttamente sul tessuto attraverso l’uso di stampe, stencils, pieghe e coloranti. Del Pozo ha lavorato con i lini sin dalle sue primi collezioni maschili negli anni 70, in un periodo in cui era difficile trovarli sul mercato, contattando direttamente una fabbrica di Saragozza che produceva biancheria per la tavola. I suoi tessuti preferiti erano piqué, cotone e sete grezze, che utilizzava copiosamente per realizzare giacche da uomo. La scelta del tessuto avveniva in modo oculato, privilegiando l’esperienza tattile.
Lo stesso designer amava affermare:“A volte devi ascoltare un tessuto e cedere ad esso, e altre volte lo devi contraddire. “
Talvolta utilizza qualcosa di povero come la iuta come principale materiale per realizzare un capo lussuoso, manipolandolo sapientemente attraverso la tintura o la scoloritura e trasformandolo in qualcosa di totalmente nuovo: un esempio in questa direzione sono gli abiti da sposa di iuta, taffeta di seta e tulle di cotone. Come ai loro tempi Tàpies, Miralles e altri hanno trasformato i loro quadri in superfici ruvide, a metà degli anni ’80 le scomposizioni degli abiti (“disossamenti”) e le trecce cominciano a emergere nelle gonne, nei cappotti e negli abiti di Del Pozo.
Le trecce sono realizzate in cotone di spessori diversi e vengono applicate lungo gli orli delle gonne in voile o per delineare le varie parti delle gonne a palloncino, a volte nascoste, altre volte visibili, come nei suoi abiti da sera di velluto dalle silhouettes morbide, in totale assenza di corsetti e costrizioni. La stessa filosofia è stata applicata per realizzare effetti di screpolatura: segmentando e suddividendo gli orli irregolari delle gonne di seta come se fossero foglie secche spezzate dal vento o, in alternativa, utilizzando le trecce attorno a un colletto elastico in velluto su un lungo cappotto di lana. Le nervature di alcune collezioni ricordano, invece, i campi appena arati della Castiglia, diventano impronta e trademark, donano valore e contenuto all’opera.
Ana Belén, musa ispiratrice di Del Pozo
3- il colore, che illumina e impreziosisce ogni creazione.
La sperimentazione del design include anche il colore, la tavolozza che sceglie per le sue collezioni. Sin dagli inizi, ha deliberatamente e incessantemente manipolato tonalità polverose o miste, la sua percezione vira verso le palette medie, non usa mai colori forti ma è sottilmente attratto dalle sfumature impercettibili. I suoi colori sono studiati, ricercati e ricreati partendo dalla miscela di toni diversi per arrivare ad ottenere l’effetto desiderato di ombreggiatura o di luce da donare al capo. Questa ricerca intenzionale per una tonalità dà il tocco finale alle sue collezioni, in cui ognuno dei colori usati è in perfetta armonia di insieme. La sua aspirazione massima era un lusso poetico e intimo , un regalo per i sensi, una esplorazione della complessità dei contenuti e delle forme.
P/E 2009: P/E 2007; P/E 2006
L’evoluzione del suo stile è sempre stata sottile ma costante, così come la definizione dei volumi: silhouette dritte e allungate negli anni Settanta, donne fiore e linee a ciotola negli anni 80 e 90, figure filiformi negli anni più recenti. Seppur lavorando nel ready-to.wear, realizza pezzi speciali così come omaggi ad alcuni artisti, primo tra tutti Antoni Tapiès negli Stati Uniti, senza mai abbandonare la sua indipendenza e i suoi tratti idiosincratici e combinando simultaneamente diversi progetti, quali ad esempio le uniforme per il RENFE o la Croce Rossa o le scenografie per le piéces di Emilio Sagi.
Nel 1979 rifiuta una offerta da un gruppo americano perché non voleva lasciare la Spagna, sempre più consapevole della propria identità, della sua terra e della propria vultura.
Nel 1999 Del Pozo è uno tra i creatori e fondatori de l’”Asociación de Creadores de Moda de España”, della quale assume il ruolo di Presidente fino a Dicembre 2000.
Nel 2003 nasce la Fondazione “Del Pozo”e dal 2004 fino alla morte, avvenuta nel 2011, tiene il “Curso de Experto Profesional en Diseño de Moda: Prácticas Empresariales”: la fondazione è il nucleo vivo di un insieme di associazioni e università che hanno firmato convenzioni con essa e rappresenta un laboratorio di idea per le future generazioni di designers.
Rappresenta una porta aperta in cui vedere un’impresa all’opera, dove lavorare con rigore e savoir faire, dove sviluppare progetti di moda o design in generale, e imparare il valore di un team le cui competenze sono perennemente aggiornate e che continua a operare attraverso la linfa vitale di giovani menti.
P/E 2003; A/I 2000/01; A/I 2001/02
Adesso la Fondazione ha più che mai il valore di diffondere i valori del padre formatore e far conoscere i numerosi aspetti della creatività made in Spain.
Durante tutta la sua carriera di designer, Del Pozo ha pertanto riflettuto sulla struttura interna di un abito e sulla natura del corpo in tutte le sue molteplici forme. Non è mai stato gratuitamente interessato a incorporare elemeneti decorativi come semplici orpelli, ma ha dato voce alla laggerezza di abiti “weightless”, genuinamente luminosi o al contrario alla struttura corposa e rigida di certe costruzioni. Le sue composizioni cromatiche ricordano alcune opere di Rothko, dove combina mistero a “trasparenze sensibili”.La sua palette di colori terziari trasporta il nostro immaginario verso i campi arati della Castiglia, dove il paesaggio naturale fa eco al sottile e impalpabile paesaggio dell’anima. L’arte e il legame con essa si manifestano pertanto costantemente nella sua opera, seguendo il suo “modus operandi” con coerenza e consapevolezza, sia che si tratti di un tessuto, di una costruzione, di una superficie, di una cromia o di un volume, dove l’abito ha una natura intrinseca di opera scultorea.
Ripercorriamo la storia di una delle più celebri designers spagnole, che ha attraversato fasi alterne nel corso della sua carriera ma ha rappresentato una terza via nel mondo della moda degli anni Ottanta e Novanta, alternativa al minimalismo concettuale della moda giapponese e alla “femme-fatale” della moda francese.
Ritratto della stilista Sybilla Sorondo
Sybilla Sorondo Myelzwynska nasce a New York nel 1963 da padre diplomatico argentino e da madre polacca, stilista di moda nota con il nome di Countess Sybilla of Saks Fifth Avenue 2. Successivamente, si trasferisce a Madrid con il padre, dove, ancora giovanissima, inizia a creare costumi, basandosi su ciò che vede nei negozi. A 17 anni, parte per Parigi e trascorre un anno nel laboratorio di haute couture di Yves Saint Laurent. Il suo primo grande successo giunge nel 1981, a soli 18 anni.
Raccolta di video di sfilate di Sybilla dal 1983 al 1985
Durante la sua prima sfilata al padiglione di Jacobo Siruela, nel 1983 stupisce il suo pubblico per l’originalità dei 40 modelli presentati: è una sfilata semi-privata, dove mette in luce uno stile personale e accattivante. La collezione costituisce una sfida allo stile femminile della power woman, allora in voga. Sono pezzi avvolgenti, scomponibili, che carezzano il corpo nei colori della natura e sono realizzati con tessuti trovati, quasi sempre, al mercato o nei negozi vintage. Questo evento attira nuove clienti che le commissionano capi su misura nell’atelier allestito in casa sua e diretto dalla sua modellista Carmen Andrés. Nonostante questo ingresso di successo nel mondo della moda, nel 1984 Sybilla afferma:
“Non voglio vendere ai negozi,
Voglio realizzare pezzi unici, trasformabili,
economici e personalizzati … “
Invitata da Juan Antonio Comín, decide di sfilare al Salón Gaudí di Barcellona: in occasione di questa prima sfilata professionale, formerà il team di collaboratori che lavorerà assieme a lei per molti anni.
“Lavoro nel seminterrato della mia casa con le mie sarte “fate madrine”
e gli amici “volontari” che vengono di notte.”
Progetta con la sua amica Gema, per l’imprenditore di Elche Rafa Boix, un paio di collezioni di scarpe che vengono presentate con successo alle fiere di Milano e New York sotto il marchio Sybilla e Gema. Tentata dalla possibilità di lavorare con mezzi economici maggiori, firma con il produttore Alberto Guardione un contratto di licenza: è così che inizia la produzione industriale delle collezioni di abbigliamento e la loro distribuzione a livello nazionale. È la nascita del marchio Sybilla.
Collezione Sybilla Autunno/Inverno 1986-87 presentata a Milano Collezioni
Le creazioni prodotte da Guardione sono presentate nelle fiere di Milano e Parigi, vengono ricevuti i primi ordini di importanti clienti stranieri (“Biffi”, “Bergdorf Goodman “,” Victoire “) e lusinghieri commenti appaiono nella stampa spagnola, entusiasta e fedele, che la consacra come ” grande promessa “. Sybilla presenta collezioni di grande successo nella passerella Cibeles per un numero crescente di adepti. Il nido d’ape gigante, l’effetto trompe-l’oeil, le sovrapposizioni, i capi modellabili da fili interni, i ricami, le perline, i colori drammatici, gli accessori eccentrici e la musica emozionante diventano trademarks delle sue sfilate.
Una creazione Sybilla del 1987
“Nella moda francese della seconda metà degli anni ’80, da una parte avevamo un filone molto androgino (ad esempio, Comme des Garçons) e dall’altra i principali interpreti erano Mugler e Montana. Lo stile di Sybilla era soft, femminile, in un certo senso naif, ultrapersonale. Il suo mondo non ricordava nulla di quanto conoscessi”, ricorda Alexandre de Betak, fondatore del Bureau Betak, che ha mosso i suoi primi passi collaborando, ancora studente non ancora ventenne, con la stilista madrilena.
Ad ottobre 1986, apre la boutique di Madrid in un vecchio garage di un vicolo sterrato, l’attuale e celebre Callejon de Jorge Juan. Sybilla incontra i fotografi Javier Vallhonrat e Juan Gatti: il trio produrrà negli anni seguenti immagini pubblicitarie memorabili. Nel 1987 José María Juncabella, presidente di Industrias Burés, offre a Sybilla la possibilità di lanciare una linea di biancheria intima che, nel corso degli anni, diventerà un must.
L’apprezzamento crescente di Sybilla nella stampa internazionale suscita l’interesse della famiglia Zuccoli, proprietaria della fabbrica di Gibo, che confeziona e produce il prêt-à-porter della star del momento, Jean Paul Gaultier. Gli Zuccoli propongono una nuova licenza, sfilate a Milano, i migliori tessuti italiani … Il grande salto. A quel tempo, le sue sfilate a Milano sono eventi affollati e clienti si accalcano nello show-room milanese: suddivise in quattro sezioni, ciascuna con la sua musica, descrivono quello che De Betak chiama la “storia della ragazza Sybilla che cucina, lavora, esce e si sposa. Molto narrative, in pieno stile Almodòvar.”. La collaborazione con Alexandre aggiunge spettacolo, humour e charm al mondo etereo di Sybilla.
I suoi cataloghi di allora sono magnifici: Sybilla ammalia con il suo talento e il suo nome comincia a comparire su riviste quali French Vogue, The Face, The New Yorker, Vogue Italia, Vanity Fair, Glamour, Lei, I-D …
ADV della collezione AI 1988/89. Photo by Javier Vallhonrat
L’anno di massimo riconoscimento del suo lavoro è il 1988: a soli 25 anni riceve il “Golden Needle of Dreams” e il prestigioso premio Balenciaga, creato dal Centro di promozione della moda del Ministero dell’Industria che mira a promuovere l’espansione e il prestigio della moda spagnola. Nel 1989, firma un contratto con Itokin, il gigante giapponese dell’abbigliamento. Subito dopo Milano Collezioni, la collezione “Winter Airport” viene presentata a Tokyo, in una sfilata che Sybilla propone come una parodia del suo stile di vita di quel momento: viaggi costanti, attività febbrili, servizi fotografici, interviste e brevi periodi di riposo. Sybilla sfrutta tutte le risorse teatrali offerte dalla passerella, dalla musica, dalle acconciature e, soprattutto, da un casting di modelle e amici trasformati in attrici spontanee di una messa in scena teatrale piena di emozioni e umorismo. Tuttavia, concepire e tenere una sfilata come questa è estenuante, soprattutto se devi farlo ogni sei mesi.
Collezioni Sybilla PE 1989 (sinistra) e AI 1989/90 (destra)
In Giappone, sviluppa una linea di cosmetici per Shiseido . Fernando Ciai inizia a produrre splendide collezioni di maglieria che stupiscono tutti. Sybilla non si ferma da due anni e mostra i primi sintomi di sfinimento: il brillante successo ha inondato la sua vita di impegni e responsabilità. Sybilla inizia a considerare di abbandonare le sfilate e di presentare le sue collezioni in modo alternativo. Presenta la sua collezione “Buenas y malas (Bene e male)” a Milano, Tokyo e New York.
Collezioni Sybilla P/E 1990- A/I 1990/91- Teatro ES A/I 1991/92
: Immagini della Collezione PE 1991. Foto: Rinaldi-Severini
Queste creazioni rappresentano un cambiamento significativo nella sua carriera: incoraggiata dalla quantità e dalla qualità dei mezzi offerti dall’industria italiana, il suo stile diventa più complesso e comincia ad usare materiali sempre più preziosi .
Il produttore giapponese Moonbat lancia una visionaria collezione di ombrelli mentre, a Maiorca, Farrutx produce scarpe e borse sorprendenti. Nel 1991 apre a Parigi un negozio temporaneo e meraviglioso con una sfilata che sarà l’ultima della sua carriera: una performance teatrale incredibile, una collezione che è un fuoco di energia creativa. La sfilata è solo una delle attrazioni dello spettacolo che viene messo in scena: ci sono anche giocolieri, giochi, orchestra …sul quotidiano francese Libération appare la seguente recensione: “Gli spagnoli danno una lezione su come organizzare una festa a Parigi”
Il mondo degli accessori di Sybilla – Tre abiti di Sybilla, creati tra il 1988 e il 1990, donati dalla Fondazione Vogue Paris al Palais Galliera.
Pochi mesi dopo apre il negozio di Tokyo: solo i giapponesi riescono a trasformare in un fenomeno di moda di massa un marchio che, come Sybilla, ha sempre nuotato controcorrente e che, nonostante il suo clamoroso successo, commercialmente si è limitato a un pubblico certamente elitario con alto potere d’acquisto. In Giappone, Sybilla ha uno stile meno intellettuale, più accessibile ed è più economico: è l’effetto di un difficile processo di adattamento reciproco e di una lunga serie di impegni con l’equipe di tecnici della produzione, consulenti di moda e dirigenti con i quali ciascun designer deve combattere in ogni collezione. Il risultato è una bomba commerciale che persiste ancora e che, grazie ad un generoso flusso regolare di yen, le permette di disertare il mondo della moda europea, che sembra troppo sclerotizzato, artificiale e ostile. La mostra Le monde selon ses créateurs apre al Palais Galliera di Parigi, alla quale Sybilla partecipa con Vivienne Westwood, Gaultier, Romeo Gigli, Martin Margiela e Jean Charles de Castelbajac.
Nel 1992, Sybilla rimane incinta del suo primo figlio, Lucas: convinta che sarà impossibile conciliare la sua frenetica vita professionale con la maternità, decide di sospendere i suoi contratti con gli industriali italiani e dedicarsi esclusivamente alle sue collezioni per il Giappone, dove iniziano a essere vendute nuove linee di accessori: orologi, cravatte, fazzoletti … Le borse fanno in boom di vendite per anni. Il miracolo giapponese è già un dato di fatto.
Nel 1993, firma la prima collezione per il Giappone. La linea nasce con uno spirito di gioia irresistibile che viene percepito non solo nell’abbigliamento o negli accessori, ma anche nella decorazione dei primi 15 negozi. Stephane Sednaoui attenua lo stile ottimistico con inquietanti campagne pubblicitarie. Sybilla è pienamente impiegata nel fornire una personalità potente a Jocomomola. Il suo obiettivo è quello di allontanarsi il più possibile dalla marca madre. Più tardi, la rigidità del mercato giapponese costringerà ad ammorbidire il mix anarchico di forme, modelli e tecniche di lavorazione a maglia che regna nelle prime collezioni. Jocomomola è prodotto anche in Spagna e, dal 2001, apre un divertente negozio a Madrid, vicino al negozio Sybilla.
Nel 1994, dopo aver scelto una strada trasversale, Sybilla vede realizzato uno dei suoi sogni, ed è in Giappone. I suoi vestiti vendono da soli, senza interviste, senza sfilate, senza imbrogli o campagne pubblicitarie. Sybilla non vuole essere una “grande designer”, né una stella della moda, né tanto meno una figura pubblica. Vuole semplicemente fare vestiti. Lo splendore del mondo della moda l’ha abbagliata per un breve periodo. Partecipa alla mostra Modes Gitanes con un abito ispirato al famoso pacchetto di sigarette.
Nel 1995, Blanca Lí, una coreografa di Granada che vive a Parigi ed è anche un’amica, ordina a Sybilla i costumi di uno spettacolo ambizioso che sta preparando sulla leggenda di Salomé. Sybilla realizza un mix di tipici costumi music-hall in maglieria molto essenziale e abiti “sonori” molto impressionanti che, durante la coreografia, partecipano alla realizzazione della musica. In quello stesso anno, propone la sua prima collezione di abiti da sposa, che è un’altra delle linee di lavoro di successo della casa. In estate nasce il figlio Bruno, al quale Sybilla si dedica completamente.
Nel 1996, Louis Vuitton, in piena ristrutturazione della sua immagine, commissiona a Sybilla e ad altri designers il design di una borsa che utilizzi il classico logo, di cui viene celebrato il centenario. Sybilla costruisce uno zaino con un ombrello incorporato intitolato “Shopping sotto la pioggia”. Le prime candele firmate Sybilla appaiono sul mercato, prodotte dalla catalana Cerabella Cerabella, tra cui la candela “Candelabro” che diventa rapidamente popolare.
Zainetto-ombrello creato per il centenario di Louis Vuitton nel 1996 – L’abito España
Il 1996 è anche l’anno in cui disegna la celebre tuta España: un abito in crepe di seta nera, che sottolinea e valorizza il corpo della donna, con una scollatura rotonda sul petto e sul retro, non ha maniche ma cinturini. Presenta una caduta rinforzata da una fodera dello stesso tessuto della tuta, è lungo fino a terra e finisce in una piccola coda nella parte posteriore. La linea del vestito, in linea con il minimalismo che prevale a metà degli anni ’90, è sobria e raffinata. L’originalità del suo design è focalizzata sul suo fronte, più specificamente sul busto, fatto di forme arrotondate e arrotondate, unite con fili di nylon invisibili, che formano una sorta di mosaico senza bordi, eliminando tutto ciò che è superfluo, anche le cuciture.
Il disegno che forma il collage riflette in queste forme gli stereotipi che caratterizzano la cultura spagnola, come il toro, il sole e la croce latina che simboleggia l’importanza della religione. Sybilla non solo riprende l’idea de “The Little Black Dress”, il vestito nero, molto in voga nel mondo della moda grazie a Chanel, ma si collega anche con la più pura tradizione del nero nell’abbigliamento spagnolo.
ADV della linea “Sybilla Noche” (1997)
Nel 1997 realizza una linea di abiti da festa: Sybilla noche. Nel 1998 firma le licenze in Spagna per distribuire linee di tappeti, candele, oggetti decorativi in argento, lenzuola, asciugamani, accappatoi, piastrelle idrauliche …
ADV Sybilla AI 2001/02
Nell’anno 2000 le presentazioni private della linea Sybilla noche a Parigi riscuotono un nuovo successo clamoroso. Sybilla non cessa di creare : nel 2003 firma un contratto con la società Pier, produttori veneziani giovani e anticonvenzionali. Di nuovo la designer vende a Milano e apre uno store Sybilla e Jocomomola in Cina: il marchio continua a trionfare. Il 2003 è anche l’anno in cui Sybilla celebra i suoi 20 anni di professione, con una brillante mostra retrospettiva a Barcellona. Lo slogan del catalogo intona un “venti non è niente … e felice è lo sguardo”.
ADV Sybilla PE 2002 with Mariacarla Boscono
Con lo stesso spirito, continua a lavorare e progettare dalla sua casa a Maiorca. Impegnata nei loro ideali e diffondendo i valori che pensa dovrebbero prevalere nel mondo, come il rispetto per l’ambiente, la sostenibilità e gli effetti – a volte dannosi – della globalizzazione. Sybilla è fedele alla sua filosofia e preferisce rimanere fuori dalle grandi correnti alienanti della fama dei media. Nel 2005, Sybilla decide di prendere le distanze dalla società da lei fondata per poi tornare dopo dieci anni di assenza nel 2015 , recuperando la proprietà del marchio, precedentemente venduto a Martin Varsavaky e Miguel Salis, fondatore di Jazztel .
“La moda è nel mio sangue, quasi una dipendenza: dovevo rifarlo”, ha detto durante una presentazione della sua collezione primaverile a Parigi.
Sybilla A/I 2015/16
Durante la sua pausa di 10 anni, Sybilla è stata tutt’altro che inattiva, dedicandosi a una vasta gamma di progetti, dall’organizzazione di seminari sul design sostenibile e la responsabilità sociale nella sua casa nelle montagne della Sierra de Tramuntana a Maiorca al lavoro come presidente di Fabric for Freedom , una fondazione che promuove la produzione di tessuti creati con materie prime provenienti da cooperative agricole, sociali e artigianali. Tutto questo buon lavoro è tradotto in modo eco-sostenibile, creando una moda per donne reali: “Voglio dare loro fiducia e forza, una sensazione di bellezza naturale, di facilità senza sforzo. I vestiti devono essere indossati con amore, emozione e orgoglio “, ha detto.
Sybilla P/E 2016
Il suo marchio di fabbrica è ancora uno stile liquido e fluido, la linea che accarezza i fianchi, che esalta la rotondità delle spalle, che allunga la scollatura con décolleté dal design accattivante. Gli abiti sono tagliati per nascondere o rivelare con una sensualità gentile ma seducente. Sono anche abiti “belly-friendly”, tagliati per distogliere l’attenzione da quel punto del fisico femminile notoriamente non così perfetto. “Le mie forme sono rotonde, basate sul cerchio. Possono trasformarsi per proteggere o esporre. Le donne sono guerriere, e voglio dar loro un’armatura che può essere leggera e forte allo stesso tempo!” . Sybilla sperava che le vendite e, soprattutto, qualche grande investitore l’avrebbero accompagnata a decollare e diventare di nuovo un riferimento ma negli ultimi quattro anni il mercato ha remato contro, con debiti che si sono accumulati e con sole vendite in Giappone, da cui arriva il 60% del suo fatturato annuale. Il resto proviene principalmente da licenze di marketing. L’ultimo Natale è stato drammatico nel laboratorio Proesa-Sybilla, situato nel quartiere Carabanchel di Madrid. Un grande gruppo spagnolo era deciso a prendere le redini di Sybilla e infine a rafforzare il progetto, ma l’accordo è sfumato all’ultimo momento: è stato uno shock per Sybilla, che deve decidere se dichiarare bancarotta e chiudere o sopravvivere pochi mesi in cambio di una drastica riduzione dei costi, incluso il pagamento delle buste paga.
“I lavoratori adorano Sybilla, la sua storia è molto bella e ci sono impiegati che sono con lei da più di 20 anni, motivo per cui lo sopportano e continuano a poggiarsi sulla sua spalla”, dice un ex operaio. L’accordo fallito è arrivato nel momento peggiore, proprio quando Sybilla ha dovuto rimborsare il prestito che Itokin, il suo partner giapponese, aveva fatto nel 2014 per aiutarla a decollare. In particolare, 1,2 milioni dovevano essere rimborsati a Gennaio. Sybilla non ha potuto risolvere i problemi da sola e da allora Itokin ha accumulato il debito in “royalties”, strangolando ancor di più le entrate del marchio, che oggi, mercato giapponese e licenze escluse, si riduce a abiti su misura (sposa e notte) e alla produzione di cashmere eco-sostenibile in Mongolia. Nel frattempo, la compagnia deve continuare a pagare 200.000 euro all’anno ai suoi creditori. Un esempio dei tempi che il marchio sta vivendo è stato il party di apertura del proprio negozio a Madrid, all’inizio dello scorso dicembre. L’evento è stato più simile a una festa paesana, con birra e musica fornite gratuitamente dagli amici di Sybilla, che al classico red-carpet che i grandi della moda di solito organizzano. L’intero quartiere di Chueca ha appreso, in mezzo alla festa di strada, che Sybilla era tornata. Sebbene l’accordo con un fondo lussemburghese sia sicuro , basato su un piano quinquennale basato su un prestito ponte, che saldi il debito con il Tesoro ed renda l’azienda in grado di fare ordini ai fornitori, di produrre nuovamente e di aprire cinque nuovi negozi in Spagna, sia per convinzione che per pura necessità, Sybilla afferma che se anche questa alleanza verrà troncata, lei getterà la spugna.
“Se il progetto di business non andrà avanti, dovrò chiudere e fare altre cose. Molti vicino a me sarebbero felice di vedermi lavorare meno, ma sarebbe triste, perché molti riversano entusiasmo e tutto il loro sforzo in questo progetto”.
Al contrario, se finalmente la ruota girerà, facendo spazio per i nuovi investitori e le nuove collezioni, il suo prestigio, nonostante le difficoltà, resterà comunque alto. In realtà, Sybilla non ha mai smesso di ricevere premi in questi quattro anni di Via Crucis. Nel 2015 ha vinto il Premio Nazionale per il Design della Moda, assegnato dal Ministero della Pubblica Istruzione, Cultura e Sport; solo un anno prima, lo stesso ministero gli aveva assegnato la medaglia d’oro al merito nelle Belle Arti. Recentemente, il designer ha ricevuto la medaglia di Barcellona per il sostegno al Design e alle Arti (FAD) 2018, e la Comunità di Madrid le ha inoltre assegnato il suo ultimo Premio Cultura nella categoria moda. Chi vivrà, vedrà.
Il DNA del marchio italiano viene fuori in un fashion show dinamico ed “ ironico”.
Quella presentata da Stefano e Domenico è una famiglia, innovativa, contemporanea. Una famiglia che volge con sicurezza il proprio sguardo alla tradizione cercando di carpirne gli attimi e le cose più belle, reinterpretarle ed utilizzarle al meglio per il gusto di migliorarsi attraverso anche ciò che già appartiene e ciò a cui siamo affettivamente legati
Una famiglia per bene, con dei valori ben evidenti. Valori che emergono da un fashion show che mi lascia a bocca aperta!
Anche quest’anno la casa di moda, sempre sulla cresta dell’onda, non si smentisce e crea lo spettacolo equivalente a quello che fa impazzire il mondo.
Un VICTORIA’S SECRET show, però molto più elaborato e ricercato che, a dispetto dello show d’oltreoceano dai corpi da urlo e dall’underwear indubbiamente sexy, ci lancia dei messaggi precisi e non banali .. qualcosa di più sicuramente che le ali da angelo…
Starete pensando “è facile non deludere se in passerella scendono star amate a livello planetario”. Forse è vero però ricordate che a volte il “troppo stroppia” e sono stati tantissimi i casi in cui qualcosa è andato storto ritorcendosi come un boomerang verso gli organizzatori dell’evento. Da Dolce & Gabbana non è stato così.
Restano fedeli a loro stessi, alla loro voglia di rinnovarsi, strizzando l’occhio ai Millenialse diventando di fatto uno dei brand da sempre nella” top 5 del fashion”.
In passerella compare l’essenza di una famiglia: lo stare insieme, la tradizione, la maternità, la crescita, la maturità e per loro fortemente la loro terra, la Sicilia. Tutto rappresentato da bellezze non finte e ,non dimenticando che si tratta di un fashion show ,quasi ritrovabili nel nostro tran tran quotidiano…ho detto quasi !
Donne non asettiche, donne che hanno da raccontare storie, donne “ ICONICHE for ever”.
C’è la donna italiana per eccellenza, Monica Bellucci… con qualche segno del tempo che scorre sul suo viso appare ancora più bella e sicuramente più vera. C’è Carla Bruni la sua bellezza sofisticata e glaciale, incanta ed ipnotizza puntualmente il pubblico.
Ci sono Mariano Di Vaio e sua moglie Eleonora …. in questo tempo che passa veloce, scandito da storie di 15 secondi su Instagram ben rappresentano la voglia di dedicare tempo alla famiglia.
Ci sono corone e accessori dallo stile royal…. incoronano tutti a principi e principesse di un mondo fatto di abiti meravigliosi, esclusivi ! In passerella a Milano, con la collezione di Dolce & Gabbana è scesa la DONNA, donna già preziosa in quanto tale. Grazie a Stefano e Domenico.
È probabilmente questo il motto che negli ultimi anni rappresenta al meglio la moda mondiale. Se nel beauty e nella tecnologia a far da padrone sono i termini INNOVAZIONE e UNICITÀ’, non succede lo stesso per i Fashion Brands, dove spesso può apparire che gli unici a rifarsi il look siano le grandi multinazionali dello shopping low cost. Questo, assoldando giovani stilisti emergenti e creando qualcosa di nuovo, sempre.
Ma è davvero così? Ogni anno assistiamo ad un calciomercato di direttori creativi e di idee, da una casa all’altra, con la speranza che quest’ultimi portino aria di freschezza. A volte funziona, a volte no. Spesso per rinverdire collezioni che, devono comunque non osare troppo e mantenere una proposta creativa che vada di pari passo con la commerciabilità del prodotti, si ricorre al supporto tecnologico e all’utilizzo dei social. In particolare la MODA, quella con la M maiuscola quella dei brands più famosi e richiesti, per intenderci, è diventata molto social ed estremamente pop (nell’accezione di popolare).
Ognuno di noi con il proprio smartphone ha l’opportunità di godersi un fashion show davanti ad uno spritz con gli amici. Le sfilate in corso in questa” Fashion week milanese” confermano tutto ciò. LA MODA non è più fatta di ESCLUSIVITÀ ma ha aperto le braccia al popolo. Per molti marchi è un grande valore aggiunto, spesso ad onor del vero che il grande business arriva anche dalla grande notorietà e dal grande seguito sui social dei propri direttori.
Basti pensare ad Alessandro dell’Acqua, designer comunque di indubbia bravura. Con maestria ha reso il suo marchio N 21 tra quelli dallo spirito social e pop più performante. Ciò certamente gli porta maggiore visibilità su potenziali clienti che forse non arriverebbero in altro modo a conoscere le sue proposte creative.
Altro esempio folgorante Marcelo Burlon, il suo carisma e la sua bravura si sono palesati “via Internet” ed ora è certamente tra i creatori più apprezzati, soprattutto dalle ultime generazioni.
Comunque, a chi crede ancora “nell’esclusività da prima fila”, tranquilli esiste ancora, esiste ancora… come esistono ancora i privilegiati che vivono da vicino, molto vicino, i fashion show da favola che stagionalmente tornano puntuali a fare sognare chi ama” il fashion”, in tutto il pianeta.
Spesso sono proprio gli invitati a questi importanti happenings di moda a trascinare i brands che pubblicizzano indossandoli, a successi ancora più conclamati. Basta dare un’occhiata agli outfits di Chiara Ferragni, Fedez e Nicki Minaj al fashion show di Fendi …. seppur esagerati hanno lasciato a bocca aperta milioni di loro followers.
Ho amato molto la collezione presentata alcuni giorni fa dall’osannato Riccardo Tisci, creatore di un vero e proprio nuovo BURBERRY, bisogna riconoscergli un estro ed una creatività strabilianti che gli permettono, diciamolo, di far diventare oro tutto quello che tocca.
Ma la vera araba fenice è una e lo è da sempre: il grande maestro Karl Lagerfeld; con il suo genio creativo e forse inconsapevolmente istrionico riesce (meritatamente) ad essere amato da generazioni. La sua ultima collezione, dedicata “alle tasche” presentate enormi su capi assolutamente impeccabili da Fendi, farà sicuramente molto parlare di se. Unico neo, per molti, l’utilizzo in grande quantità di pellicce naturali.
Parigi, Esplanade du Trocadero: Karl Lagerfeld viene ritratto con alcune modelle che indossano la collezione Primavera/estate 1973, celebrata per le sue influenze Art-Decò
Tutti conoscono il genio di Karl Lagerfeld, che ha saputo rivitalizzare in più di trent’anni la maison Chanel e rendere contemporaneo il concetto di pelliccia da Fendi a partire dagli anni Sessanta: con questo articolo invece ripercorriamo la sua storia in una delle maison storiche di Francia, Chloé, che ha da poco festeggiato il sessantacinquesimo anno di vita.
La nascita della Maison Chloé
La maison Chloé nasce nel 1952, l’anno di punta di Monsieur Dior, che domina la moda con le sue silhouettes strutturate e i tessuti sovrapposti che creano volumi importanti. Gaby Aghion, parigina di origine egiziana, collezionista di arte futurista e tribale e amica di Pablo Picasso e Lawrence Durrell, volle proporre un’alternativa a una visione dell’abito elegantemente rigida e costrittiva. Fondò la sua casa di moda assieme al suo socio Jacques Lenoir, battezzandola Chloé, nome di una cara amica che evoca l’idea di una giovane donna libera e moderna. La moda della Parigi del dopoguerra era divisa tra la perfezione della haute couture e le donne comuni vestite con mediocri copie dell’alta sartoria. Entrambi i creatori furono tra i primi a essere consapevoli dell’esigenza di nuove collezioni che combinassero la facilità del prêt-à-porter con la qualità dell’haute-couture. Gaby decise di creare una linea di abbigliamento disponibile immediatamente, realizzata con tessuti pregiati di ottima qualità, quello che poi sarà definito “il prêt-à-porter di lusso”.
La prima collezione fu presentata nel 1956 al Café de Flore, luogo di ritrovo di artisti molto conosciuto a Parigi, riscuotendo un così tale successo da rendere la maison un punto di riferimento dello stile degli anni Sessanta francese, apprezzato da numerose celebrities quali Brigitte Bardot, Grace Kelly, Jackie Kennedy.
Gaby e Karl
Karl Lagerfeld in studio (1964)
Il primo incontro tra Aghion e Karl risale al 1964: in un primo colloquio, il teutonico stilista le mostrò varie creazioni corredate da vivaci guanti gialli, riuscendo a dare un total look ai suoi vestiti. Pur temendo che il suo gusto fosse troppo barocco, supportata da Lenoir, diede inizio a questa collaborazione. All’inizio Lagerfeld lavorava al fianco di altri designers freelance (termine allora in voga per distinguerli dai couturiers) che collaboravano alla progettazione di due collezioni l’anno: Tan Giudicelli, Michèle Rosier e Graziella Fontana. Gradualmente, il suo ruolo assunse sempre più importanza e gli altri designers pian piano se ne andarono. Gaby insegnò a Karl, proveniente da un periodo di apprendistato da Pierre Balmain e da Jean Patou, che la moda poteva essere più leggera, più veloce, senza troppi frou-frou, semplificando e addolcendo la sua linea e selezionando la sua abbondante produzione di bozzetti.
Il primo riconoscimento da parte dello stampa risale al 1965, quando il primo credit “Karl Lagerfeld pour Chloé” apparve su Vogue Paris: al tempo realizzò il celebre abito “Tertulia” per la Primavera.estate 1966, dipinto a mano con motivi ispirati all’Art-Nouveau, suggerendo la propensione della maison per uno chic bohémien.
Nel 1969, appena giunti da New York e chiamati dalla rivista Elle, bussarono alla porta della maison Antonio Lopez e Juan Ramos. Antonio era un illustratore di moda, Juan il suo direttore artistico. Antonio aveva un paio di baffi neri, scarpe cubane, un orecchino d’oro e un kohl sugli occhi ed era ossessionato dalla bellezza e dalla perfezione. Antonio chiamò al rapporto Donna Jordan, una ragazza bionda e magrissima che aveva lasciato Newyork per conquistare il mondo delle modelle.
Gli americani portarono con sé una nuova cultura della moda che era sostenuta dalle influenze visive dell’arte contemporanea americana,in particolar modo la mentalità pop di Andy Warhol, diversa da qualsiasi nozione parigina di eleganza impostata da Balenciaga o Dior. Era il loro approccio che annunciava il futuro: una fusione incurante di strada, cinema, arte, ironia, musica e individuo. La moda non era più una questione di silhouettes ma di attitudine. C’era un desiderio sempre più crescente per un nuovo romanticismo, per vestiti con un’anima estremamente femminili, che si esprimeva attraverso fantasie dal gusto retrò come reazione al modernismo ascetico della space-age di Cardin e Courreges.
Disegno di Antonio Lopez. Abito e cappotto di Chloé – Karl Lagerfeld con l’art director Antonio Lopez che ritrae la musa Ejia (1973)Pat Cleveland e Donna Jordan in Chloé (1974) – Anna Piaggi, Karl Lagerfeld e Donna Jordan (1971)Bozzetti di Antonio Lopez per Chloé
L’incontro nel 1970 con Andy Warhol fu di fondamentale importanza per la sua carriera: il ruolo di comparsa nel film “L’amour “ gli diede la possibilità di analizzare da vicino il primo piano di Warhol, la sua capacità di manipolare l’immagine, la realtà e la gente. Un anno dopo, di ritorno da un viaggio in Giappone per Chloé, Karl acquistò un ventaglio, che divenne un simbolo del suo stile per i successivi trent’anni, oggetto di difesa e feticcio inseparabile. Antonio Lopez stilizzava le linee dei vestiti Chloé mentre Karl li realizzava, andando oltre la realtà dei disegni e suggerendo sempre a Lagerfeld un percorso, portando Karl all’idea successiva.
Nel 1971 fece il debutto in passerella da Chloé Pat Cleveland, dominando la scena con la sua forte sensualità e le risate e introducendo il movimento e la danza in passerella, in un’epoca in cui Parigi era popolata da mannequins anonime che mostravano i vestiti, non loro stesse. Successivamente, fu la volta di Eija, finlandese fotografata da Helmut Newton, dotata di un fascino da eroina hitchcockiana. Il modo formale e misterioso di Eija, che di giorno e notte indossava abiti anni Cinquanta con graziosi cappellini appoggiati sulla testa, fondotinta pallido con tocchi di fard e ombretto nero, ispirò un’intera collezione di Karl. L’amicizia con Antonio e Juan fece intraprendere a Karl un percorso creativo di costante rinnovamento, sapendo cogliere una nuova tendenza, esplorarla, disegnarla e dopo poco rimuoverla spietatamente dal suo sistema intellettuale per passare a quella successiva.
Fu in quel periodo che cominciò a costruire il suo personaggio e la sua moda basata sul pick-and-mix prendendo spunti oggi dall’Art Decò, domani da Fernand Léger. Il rinato gusto per l’Art-Decò colpì molto l’immaginario estetico di Karl, attratto dallo squisito stile dei mobili di Ruhlmann e Groult, dai bronzi di Brandte dalle superfici laccate di Jean Dunand. Egli aveva una energia infinita, una mente veloce e fotografica e una memoria che nutriva con libri comprati in doppia copia, una da conservare e l’altra usata per separare i riferimenti e archiviare una risorsa visiva futura. Il suo metodo creativo richiedeva un’alimentazione costante e una stimolazione visiva incessante, il suo genio consisteva nell’osservare, assimilare e ricreare, oltre a un consumato senso del tempo nel sapere quando andare avanti.
I temi ispiratori le varie collezioni erano inconsueti per il tempo: anziché nominare ciascuna collezione nel modo tradizionale, venivano usate le lettere dell’alfabeto. Nel 1972, fu usata la lettera “R”con abiti che avevano nomi di artisti quali “Rachmaninoff”, che prende il nome dal celebre compositore russo e realizzato in una stampa bianca e nera che simboleggia un pianoforte, o semplici parole che il designer trovava “inspiring” come “réconciliation”.
Chloé Primavera/estate 1974. (foto: Alex Chatelain per Vogue Italia)Chloé Autunno/Inverno 1974/1975 (foto:Jacques Bugat per Vogue Italia) – Pat Cleveland e un’altra modella sfilano per la collezione Primavera-estate 1974
La sua collezione per la primavera-estate 1973 presentò in passerella giacche Spencer o in seta stampate, una gonna definita “a sopresa”, plissettata e lunga fino alle caviglie, così larga da nascondere il fatto che in realtà si trattava di pantaloni, e abiti in stile Carmen Miranda, molto corti e corredati di reggiseno a vista o lunghi corredati di “bra” e scialli. Karl divenne unico designer di Chloé a partire dal 1974. Le prime collezioni, che attrassero subito l’attenzione di una ricca clientela di ricche hippies e radical-chic, erano caratterizzate da abiti morbidi e decostruiti, relizzati con tessuti splendidi ma svuotate di rigide strutture interne come nella tradizione Haute-Couture, leggeri, aerei, facili da indossare. Ricorrente, allora, era l’uso del “punto zig-zag” sulla piega degli orli e sui bordi del capo (che ritroviamo anche in Sonia Rykiel), o di bordi sfrangiati senza finitura: questa tecnica è stata soprannominata dalle riviste di allora “Original Chloé Finish” o “Designer’s Finish”.
Chloé P/E 1975. Ph: David Bailey per Vogue Italia – Chloé by Karl Lagerfeld – Chloé P/E 1975. Ph: David Bailey per Vogue Italia
Per l’autunno inverno 1974/1975, un plissé “gioiello”invase gli abiti neri, avvolgenti, foderati di nastri color champagne. Le maniche “lampione”, realizzate con tubi d’organo molto fini, aggiungevano morbidezza e, nella sfocatura delle crêpes marocchine, creavano nonchalance. Un lungo mantello di lana nera si apriva in una corolla su una gonna di cashmere a pieghe. Per il tardo pomeriggio e cocktail, Lagerfeld proponeva abiti in crepe double-face e a contrasto. Aerei come sciarpe, senza impedimenti e senza cuciture, gli abiti combinavano colori luminosi e asciutti; le maniche a pagoda o kimono, le pieghe a fisarmonica e i volants sostituivano sui tessuti uniti i motivi Art decò.
“I 200 modelli di tendenza di Karl Lagerfeld rappresentano per le forme decostruite quello che Balenciaga rappresentava per gli abiti costruiti… Annoda la materia insieme, lascia che la donna crei la forma con un abito-sciarpa. Il più grande accessorio è una sciarpa, che diventa girocollo, cintura, fascia per le caviglie” scriveva entusiasta il WWD, che dedicò alla collezione estiva del 1975 la prima pagina. Proseguì superlativo il decano dell’Herald Tribune, Hebe Dorsey: “Il più grande talento di Lagerfeld risiede nel suo approccio non strutturato alla moda che si basa su una profonda comprensione del tessuto. Con un minimo di cuciture, sembra che i suoi vestiti siano stati messi insieme dalla pura magia. A partire dalla scorsa stagione, ha sviluppato un nuovo modo di rifinire i suoi orli, che sono tagliati puliti invece di essere raddoppiati. Non c’è la minima traccia di rivestimento …. Alcuni vestiti non sono altro che un paio di rettangoli, quello anteriore ripiegato sul retro …. di conseguenza, tutto galleggia.” L’essenza dello stile di Chloé diventò la mancanza di struttura dell’abito, il weightless, l’estrema femminilità che parte da un’idea molto semplice di vestiario (una gonna e una camicia) che però nascondeva un’estrema ricercatezza nei dettagli, il tutto declinato in delicati colori pastello tra cui il rosa-orizzonte stemperato dalla luce.
Agli inizi del 1975 Chloé e Karl Lagerfeld firmarono un proficuo accordo di profumi con Elizabeth Arden negli Stati Uniti per creare la prima fragranza Chloé. È stato un momento cruciale per Karl perché con questo contratto, con il profilo dei media e con il denaro che ha generato, per la prima volta nella sua carriera, è andato oltre il ruolo assunto in Chloé per ricevere parte della quota di profitto. Aghion e Lenoir scelsero di non dargli partecipazioni nell’allora compagnia di Chloé, ma invece formarono una nuova società con Karl chiamata Karl Lagerfeld Productions: ciò significava che la quota di profitto di Karl era su tutto tranne il prêt-à-porter di Chloé. Il profumo “Chloé” fu lanciato ad Aprile con un tour in America che includeva feste e sfilate di moda, conferenze stampa e apparizioni in negozio. Fu intervistato per la prima volta da André Leon Talley, allora giornalista di “Interview”con un articolo dal titolo “Karl Lagerfeld in a cloud of Chloé”, dove si discuteva dell’ultima collezione e dell’influenza nella moda di Isadora Duncan. Fu uno dei primissimi riscontri a livello internazionale, al di là dei confini parigini.
Abbandonato lo spirito decò, la sua attenzione si concentrò sul diciannovesimo secolo, prendendo ispirazione dalla campagna e non dai costumi nobiliari, e creò gonne pantaloni sopra “panniers” nascosti e abiti di seta dipinti a mano ispirati alle porcellane di Meissen. Nella moda di quegli anni, ebbe grande influenza Anna Piaggi: per Karl, collezionava abiti haute couture vintage, antichi jodhpurs presi al Chelsea Market, bloomers edwardiani da lei tinti di nero, una cappa di tela che era stato un costume nella prima de “L’uccello di fuoco” di Stravinsky.
Primavera/estate 1977. Harpers Bazaar Italia – Primavera/estate 1977. Vogue Italia Dossier Sfilate
Per la collezione primavera-estate 1977, ritroviamo plissé di ogni tipo, dal soleil al comète, jet d’eau, éventail e jeu de cartes, declinato in effetti di movimento con due gonne sovrapposte, maniche a lampione o smontabili dall’abito, sciarpe che si stringono in un modo e poi si allargano a coda di cometa, sciarpe anello chiamate “lasso”, infilate in vari modi.
L’abito sottoveste è realizzato in crêpe romain in un colore definito da Karl “bois lavé”, il bain de soleil è color ciliega, accompagnato da minigonna e sciarpe cometa, il gilet-astuccio è legato al collo a motivi bianchi-neri., l’abito con maniche lampione è in crêpe de Chine con maniche con effetto di bordi e di pois neri. Il look è accompagnato da espadrillas per mostrare che le donne amano “s’habiller pour rester chez sòi”. “La collezione è come un bel giardino”-affermò Beatrix Miller, direttrice di Vogue UK-”non si sa che fiore scegliere”. Di solito le sue sfilate si svolgevano il Lunedì alle 9 di mattina e la collezione era sempre pronta in largo anticipo, mai in ritardo.
Il suo modo di lavoro fu espresso chiaramente nel 1979 nel documentario televisivo “Top Ten Designers in Paris: “non è più molto moderno parlare di silhouette: quello che conta è il mood, lo spirito, l’atmosfera. Le spalle sono ancora larghe, la vita non è più così sottile come la stagione scorsa e le gonne sono più corte, ma queste affermazioni mi ricordano quelle antiche conversazioni di moda degli anni ’50 Il messaggio viene costruito a partire dagli accessori e da tutte le differenti cose che aggiungo. Infatti, gli abiti sono abbastanza semplici, easy da indossare.”
Per il tempo questo fu un concetto abbastanza radicale: in poche parole, Karl riassunse la direzione che la moda avrebbe intrapreso nei decenni a venire: quando si osservano principalmente le collezioni dal 1979 in poi, sono gli accessori stravaganti e le stampe accattivanti. che emergono su capi componibili e facili da indossare.
Cinture fatte di bolle di plastica avvolte attorno a costumi da bagno o che spuntano dalla testa come fosse schiuma di detersivo, cappelli a forma di disco-volante abbinate a brillanti gonne disco di crêpe de Chine, un pappagallo vivo su una spalla, ventagli di seta: questi alcuni dei dettagli più spiritosi visti in passerella. La sfilata diventava pertanto un luogo emozionante, accompagnata dalle note dei brani disco-funky del momento, come “Love to love baby” di Donna Summer.
La passione di Anna Piaggi di indossare lingerie vintage e preziosa durante il giorno divenne fonte di ispirazione per l’utilizzo del merletto nel daywear. La sua moda era piacevole, facilmente indossabile, caratterizzata da una femminilità fresca, un modo di vestire etereo, caratterizzato da abiti romantici fino ai piedi di chiffon.
Fu il primo a far indossare in passerella scarpe da tennis, che per allora rappresentarono una vera rivoluzione, abbinate a bustier di piqué di cottone bianco sotto un completo, giacche, cappotti e abiti baby-doll senza orli.
André Leon Talley nel 1978 sintetizzò i suoi principali traguardi nel mondo di Chloé: le sovrapposizioni del 1969, gli abiti da sera decostruiti del 1972, gli orli non terminati del 1974 e un ritorno al pizzo su tulle di cotone nel 1977. Nonostante tutte queste invenzioni, non inventò uno stile univoco: le sue creazioni erano in linea con lo spirito del tempo, filosofia che è tutt’ora valida per Fendi o Chanel.
“Il mio stile è più: Another Spring, Another Love,” ha detto nel 1979, riferendosi alla canzone di Dietrich e al suo stile decorativo, anche se avrebbe potuto facilmente descrivere il suo approccio alla moda. Karl si rifiutò categoricamente di sostenere qualsiasi nostalgia; l’unica cosa che accettava come costante del suo stile era il nuovo, il prossimo. “Quello che è importante è ciò che farò, non ciò che ho fatto in passato.”
Collezione P/E 1979 Foto: Paul Van Riel – Collezione A/I 1979/80 Foto: Françoise LamyCollezione Primavera/Estate 1979Collezione Autunno/Inverno 1979/80
Alla fine degli anni ’70, il cambiamento si realizzò con il passaggio a una silhouette più aderente, costruita, soprannominata “retrò” perché in parte reminescenza degli anni ’50. “L’abito sciolto e stratificato è divenuto semplicemente disordinato” affermò in una intervista. Ha cercato di mantenere il comfort e la facilità nel vestire degli abiti anche in quelli strutturati attraverso la scelta sapiente degli abiti e la loro realizzazione. Il suo bustier senza spalline non è stato un remake o una copia letterale di quelli realizzati negli anni ’50 ma ha una forma spumeggiante che dona al corpo un facile movimento, senza compressione del punto vita.
La silhouette della Primavera/Estate 1979 è assai modellata, estremamente femminile con fianco enfatizzato da baschine ondulate o persino imbottite di gommapiuma) si staglia con la nitidezza delle ombre cinesi. La sua linea netta si ispira al maestro della Bauhaus Oskar Schlemmer. Ad aumentare lo slancio della silhouette , le gonne si arrestano alla fine del ginocchio; in alto un cappello-disco di paglia nera, ai piedi , ai piedi tacchi alti a cono.
Nella sua ricerca di una costruzione nitida, di una silhouette sempre più grafica, KK (il “Kaiser Karl” come venne soprannominato) riscopre a pieno la geometria in modo antitetico allo stile asessuato degli anni ’60. Gli abiti della collezione Autunno /Inverno 1979/80 , torniti e levigati, dotati di maniche bombées “à croissant” sono una apoteosi della morfologia femminile. L’aspetto di birilli fantastici o pezzi di uno stravagante gioco di scacchi è accentuato dai capelli, costruiti sulla base del cerchio.
Con il cambio storico di gusto e estetica che ha dominato i primi anni ’80, che hanno visto l’ascesa di Claude Montana e Thierry Mugler, Karl Lagerfeld ha saputo sempre tenersi a passo con i tempi, a differenza di molte star degli anni ’70 che stavano svanendo. Oramai il prêt-à-porter era riconosciuto come la forza che dominava la moda, sia in termini di trend-making che di profitto, e Karl Lagerfeld era considerato come un membro di lunga durata del settore, ancora in grado di spirgionare energia.
La primavera/estate 1980 è uno sguardo smaliziato agli anni’60 , dettato da un desiderio di non prendere nulla sul serio, tanto meno la riconquistata purezza delle linee. In un’ottica anti-Courréges, la sua moda è dinamica, attraversata da righe di tutte le fogge. Gli accessori sono cappelli a biplano, tacchi a trottola, veline di plastica iridescente usate per impacchettare gonfie pettinature “à la Pompadour” in versione stilizzata, la bolla di plastica posata un po’ ovunque in sostituzione dei gioielli e persino il Crysler Building di New York trasformato in abito nero con ricami di vetro. Le gonne sono dritte e animate a mezza via da una volant, geniale compromesso tra lo stretto e il largo. KK usa il volant, da lui rinominato “cerchio mobile” per allungare le gonne a piacere: con due volants arrivano al polpaccio, con tre alla caviglia; i colori si ispirano ai “toni iridati di un tramonto sulle pareti di un grattacielo di vetro” o alla freschezza dei sorbetti gelato.
Il gioco delle proporzioni è continuato per la Primavera/estate 1981, dove KK propone diverse interpretazioni del corto, dall’abito a palloncino al bermuda alla doppia gonna con orli in scala; la linea è geometrica, esaltata di mille dettagli. Interessante il dettaglio del fulmine ricamato che spezza il rigore della seta.
Il 15 Dicembre 1982, dopo mesi di gossip e smentite, arrivò l’annuncio ufficiale che Karl avrebbe assunto di designer da Chanel. All’inizio la casa di moda descrisse il suo ruolo in termini eufemistici: avrebbe dovuto fornire un “orientamento artistico” per l’haute couture, a partire dalla collezione Primavera/Estate 1983. Karl negò ripetutamente di avere a che fare con la collezione ready-to-wear, ma le smentite risultarono vacue, dato che Philippe Guilbourgé, designer di Chanel dal 1977, non aveva rinnovato il contratto dalla primavera del 1982; al suo posto venne posto l’ex assistente di Karl, Hervé Léger, che molti speculavano lavorasse in realtà alle sue dipendenze, eludendo segretamente il contratto di esclusività con Chloé.
Abito a effetto “doccia d’argento” della collezione A/I 1983/84 – L’evoluzione dello stile Chloé in un disegno di KK – Abito “Crètoise” della collezione P/E 1984. (foto: Paul Van Riel)Sfilata Autunno/Inverno 1983/84Sfilata Primavera/Estate 1984
Il gioco di contrasti proseguì nella collezione Autunno /inverno 1983/84, dove all’interno di un singolo abito si contrappongono due tecniche: il costruito e il decostruito, come a voler contrapporre la futilità alla severità, la frivolezza al rigore.
La linea curva, i materiali sono flessibili, le scarpe larghe e spigolose donano una nitidezza geometrica ai capi., l’imboccatura della manica a “sella da corsa” accentua i movimenti rendendo leggeri anche i materiali più corposi; per togliere pesantezza, i colli e i risvolti si prolungano fino all’orlo oltre la vita. I looks da giorno erano allungati e dall’allure sporty-chic, in mélanges e sfumature di grigi, marroni e neri realizzati in mohair scintillanti, tweed “sale e pepe”, cheviotte a coste, velluti di lana leggeri come fiocchi di neve, crepe di lana “granulé caviar” e ottoman di lana a stampato “disintegrato o molecolare”.
La sera invece, con i celebri abiti con ricami a cascata d’acqua, rappresenta un momento di seduzione, eleganza e spensieratezza, dominata da colori vivi e giocosi come il rosso fiamma, la grafite luminosa e la perla iridescente.
Nel 1983 Karl decise di divorziare definitivamente da Chloé: i motivi addotti per la sua partenza variano a seconda della parte intervistata. Il designer descrisse “un clima non più creativo”, mentre i proprietari Aghione Lenoir sostenevano la riluttanza a sostenere le alte tasse francesi del governo Mitterand. A Lagerfeld fu comunque riconosciuto il ruolo di aver saputo sviluppare il brand, creando una varietà di look sempre corredati da sontuosi e spiritosi accessori. L’ultima collezione (primavera/estate 1984) è un omaggio alla sartoria, ispirazione evidente dal divertente uso di braccialetti di filo spinato, puntaspilli ingioiellati, ditali combinati con perle e forbici che impreziosiscono ogni dettaglio, dalle cinture ai manici dell’ombrello. Il tema è sviluppato in modo surrealista con effetti “trompe l’oeil”, come due forbici di un celeberrimo abito da sera che sembrano tagliarlo in due.
Memorabile l’abito “Crètoise” indossato da Ines de La Fressange, basato su “elementi mitologici della storia greca e italiana” e realizzato con perline che disegnano drappeggi di stoffa a pieghe, accessoriati con una corona di foglie d’alloro dorate. La silhouette prevalente è lunga e snella, irriverente nell’abbinamento tra abiti da sera e scarpe da ginnastica e occhiali da sole, fluida nella reintroduzione della chemise, e rende omaggio all’essenza dello stile francese, ben realizzato e volto ad esaltare la figura femminile.
Il look è una fusione di stili diversi: cenni all’abbigliamento maschile, orecchini presi in prestito dal tema della sartoria, palette black& white che suggerisce una ispirazione smoking, giustapposizioni tra long e short, slim e wide, pantaloni stretti alle caviglie e indossati con degli scarponcini.
Quello che nel 1983 sembrò un addio, fu solo un arrivederci: nel 1992 tornò a dirigere l’ufficio stile della maison. Del suo nuovo contratto, al tempo disse:
“ Ho una visione per questo, non è come cominciare un nuovo business”
Il seguito della storia lo troverete presto su Magazzino26
Ne sono passati di anni da quando nel 1947 Christian Dior propose un tessuto con stampa animalier in una sua memorabile sfilata.
Fu subito successo. Da allora, instancabilmente, questa fantasia ha caratterizzato anno dopo anno le collezione più importanti della storia della moda diventando per i fashion designers uno dei temi preferiti in assoluto.
Si presta a mille interpretazioni e a mille outfit diversi; dalla maglieria più sofisticata di Blumarine ai petit dress di Dolce & Gabbana, dagli indimenticabili long dress di Valentino alle ricercate interpretazione di Versace, Alaïa, Saint Laurent celebrate ed amate in tutto il pianeta.
Le fantasie maculate saranno per forza prese in grande considerazione da tutte le donne che amano la moda sicuramente anche nella prossima stagione estiva 2018. Diciamo da tutte le donne poiché abbiamo visto questo “argomento” interpretato veramente nei modi più impensati ed originali.
La versione più eclatante è stata sicuramente quella di Donatella Versace che con la collezione “Tributo a Gianni Versace” ha riproposto fantasie ed outfit tanto cari al fratello.
Maculato in total look da Dolce & Gabbana mescolato a righe da Dior; decisa e grintosa la rivisitazione multicolor nella proposta di Prada.
Quando arriva il freddo per coprirci meglio indossiamo un cappello. Oltre a proteggere la testa e le orecchie, risulta essere anche un accessorio di moda. Il mondo dei copricapo è molto ampio: Borsalino, berretti, Beanie hat, Cappello cowboy e altro ancora. Per stare comodi con il cappello non bisogna sbagliare la taglia, va scelto di una misura che calzi perfettamente.
Ecco alcuni modelli di tendenza per l’Autunno-Inverno 2018:
Cappello floppy stile anni ‘60: Si caratterizza per la sua ampia falda modellabile che arriva ad altezza occhi. Un accessorio iconico che dà subito un tocco di eleganza.
Borsalino: Modello classico e tradizionale di stile e origine italiana, fatto di feltro e pelle. E’ conosciuto per la sua falda dritta di misura media e per avere una cinta che circonda la cupola.
Cappello da cowboy: Il suo volume richiede una buona dose di coraggio. Per vere cowgirls metropolitane, da sfoggiare in città se volete essere notate.
Il basco: Ideale per i giorni più freddi, può essere portato da mattina a sera. Molto utilizzato dalle donne parigine e amato dalle celebrity tanto da diventare una vera mania.
Beanie hat: non è inverno senza cuffia di lana. Quest’anno diventa importante grazie a scritte-status, soffici pon-pon, trecce o lavorazioni jasquard degne di un look après-ski.
Passamontagna: A portarlo in passerella è proprio Alessandro Michele per Gucci. A esultare saranno le più freddolose che proteggeranno il viso, in questa stagione particolarmente delicato.
Morbidezza e volume sono le caratteristiche che deve avere il cappello dell’inverno 2018. La lana tricot, il cashmere o la pelliccia-peluche sono da provare !
a cura di Magazzino26 Fashion Blog
INFORMATIVA
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.. AcceptRead More
Privacy Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.